L’occasione di liberarsi dalla morsa dell’ambiente puritano arriva inaspettatamente nel 1942, quando si arruola nell’American Field Service, un servizio volontario di sanità organizzato durante la seconda guerra mondiale. Addestrato come autista di ambulanze, partecipa alla battaglia di El Alamein; successivamente viene assegnato alle truppe di invasione in Italia dove, in Abruzzo, prosegue il lavoro con l’ambulanza prestando assistenza anche ai civili colpiti dalla guerra. Nel maggio 1945 entra nel campo di concentramento di Bergen Belsen, appena liberato: vi trascorre un mese intero, impegnato in una mastodontica opera di soccorso.
Davanti alle cataste di cadaveri di Belsen, e poi nei volti dei civili sofferenti, Congdon scopre che la pittura, intesa come donazione di sé, è la sua vocazione per la vita. Congdon è uno dei pochi artisti americani della sua generazione – se non l’unico – ad aver vissuto in prima persona la tragedia che dall’Europa si sarebbe propagata oltreoceano, fino a contaminare le tele dei colleghi Pollock e Rothcko. Finita la guerra, Congdon torna in patria ma non a Providence. Con l’unica certezza di voler abbandonare la rigida disciplina del New England, si tuffa nel cuore aggrovigliato di New York. In un continuo andirivieni tra America ed Europa, tra New York e Napoli, vedono la luce le opere più potenti e più riuscite di questi anni, primi vagiti di un personalissimo linguaggio pittorico.