Biografia

Alla fine degli anni Settanta, ancora grazie all’amico Paolo Mangini, chiusa la casa di Assisi, Congdon trova una nuova sistemazione nella Bassa milanese, in una casa-studio annessa a un monastero benedettino, conosciuto come Cascinazza. Congdon sprofonda in una terra che è “una spugna sozza e bagnata”: Venezia non è mai stata così lontana. È come essere inghiottito da una terra “infera”, un buco nero che sembra risucchiare tutta la Bellezza contemplata negli anni passati.

Nel ’79 sono stato condotto in un luogo senza volto, senza memoria: la Bassa Milanese. Esattamente come quando cominciai a dipingere a New York dopo la guerra, nel ’48, senza memoria, senza tradizione, nuda e povera. 

Assorto nella contemplazione del muto dialogo tra cielo e terra, a poco a poco Congdon riscopre nel lavoro del pittore un’analogia profonda con quello del contadino: paziente, umile, sottomesso al ritmo del tempo. La disposizione contemplativa di questi anni e la pacificazione intravista nei nuovi quadri non escludono periodiche crisi di “sterilità” creativa e momenti di grande insofferenza. A tenere Congdon aggrappato alla “nave cascina” arenata nella Bassa non sono soltanto gli evidenti limiti fisici, ma anche la vicinanza affettuosa e discreta dei monaci benedettini della Cascinazza. 

Di tutti gli edifici il Monastero è la nave. Nella nebbia, senza luci, la mole della Cascinazza – col suo carico di preghiere sia che si dorma, sia che si (s)vegli, naviga (…) lungo le acque della terra – della vita.

Nel 1982 Congdon attraversa un nuovo momento di stallo creativo: la fuga si ripresenta come tentazione. Anche la Bassa, al pari di tanti altri luoghi precedenti, sembra ormai giunta al suo esaurimento. Congdon si sente tornato al punto di partenza, a una situazione di buio e cecità, di cui la nebbia padana è l’esatta manifestazione fisica. 
Lo scandalo della nebbia, ancora una volta, non è l’ultima parola. Può trasformarsi in passaggio, in insperata possibilità. 

Il Soggetto è la nebbia – vestita non di ciò che ha sepolto, ma di ciò che ha rivelato, - di frammenti scelti, redenti, per dare nome al niente (…).

L'apparente “fermarsi” del viaggiatore instancabile apre nuovi e insospettati orizzonti.

Era necessario che io rinascessi a una nuova vita, la vita definitiva, quella per cui fossero perdonate tutte le mie vite passate. A Venezia non sono approdato al Perdono. Dove allora Dio voleva collocarmi perché questo perdono (…) favorisse il rinnovare della mia pittura che, come la vita, doveva riassumere tutta quella del passato? Certamente questa maturazione non poteva avvenire in un luogo scelto da me, come lo erano stati tutti gli altri luoghi del mio passato (…). Doveva, allora, avvenire in un luogo “neutro”, meglio ostile; in un luogo così alieno alla mia indole naturale da identificarsi con la sofferenza dell’esilio da tutto ciò che, nella mia vita, mi aveva sostenuto, confortato, lusingato ed ispirato: un Esilio, insomma!

Per questo, Gudo, quando sono arrivato (…), l’ho chiamato “il cesso del mondo”. E tutti si sono ricordati di questa mia espressione. Però è un cesso, sì, ma era la più grande grazia che Dio mi ha dato. 

Una volta era diverso perché andavo apposta per dipingere. Oggi no. Dunque i termini sembrano ora capovolti: se un tempo il viaggio portava alla pittura, ora è la pittura che, dal proprio interno, conduce al “viaggio”. 

The William G. Congdon Foundation

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