Dalla fine della guerra, il legame di Congdon con la sua patria si fa sempre più discontinuo e conflittuale. Mentre l’Italia continua ad offrigli un accogliente rifugio, l’America esercita su di lui ancora un ambiguo richiamo, in un gioco di attrazione e repulsione. Desideroso di lasciarsi alle spalle la rigida disciplina del New England, lascia Providence e si tuffa nel cuore aggrovigliato di New York. La prima tappa dell’immersione nella City è la Bowery, un quartiere di tuguri cadenti, abitato da miseria, vizio, morte e sofferenza dove Congdon cerca lo stesso male da riscattare che ha visto a Bergen Belsen. Nella scelta di un quartiere come la Bowery pulsa anche la voglia di riaffermare la ribellione alle proprie radici, di gridare la propria diversità. In questa “piccola Napoli”, dove ogni giorno si lotta per sopravvivere, William trova anche una piccola comunità di amici, che lo conforta e lo sostiene nei primi passi della sua avventura artistica.
La potenza dell’ombelico della mia famiglia, della mia educazione, era così forte e non avevo la forza da solo di staccarmi. Avevo soltanto l’esperienza della guerra dietro a me che urgeva a manifestarsi e poi però qualcosa doveva darmi la forza (…) non potevo stare coi ricchi e dovevo stare coi morti, perché io ero morto. (…) Con un ferreo scarabocchio d’inchiostro su carta bagnata volevo cancellare l’eleganza vittoriana della mia origine.
[Il mio] cuore, rinnovato dal terrore e dalle sofferenze di una guerra, “pianse” le facciate sanguinanti dei tuguri di New York: i miei primi quadri ad olio nacquero dallo sgocciolare, o dripping, dei colori, liquidi come il sangue delle mie proprie viscere.
Io non sceglievo i luoghi. Un fiuto di cane da caccia del profetico dono mi indicava il dove trovare l’immagine che mi attendeva. Correvo qualsiasi distanza per impossessarmi della evangelica perla. Possedutala, correvo indietro al mio studio (…) Non ho mai abbandonato un luogo, lo portavo con me fin dentro il quadro come prolungamento del luogo precedente.
Trasferitosi ben presto a Park Avenue, in un prestigioso appartamento al trentesimo piano, il suo sguardo sulla città si allarga. Dalle facciate di edifici cadenti della Bowery, si passa a visioni complessive: più che “paesaggi urbani” quelli incisi da Congdon sono fitti reticolati che si accumulano sull’anima della città, fino quasi a farla scomparire.
E la facciata del casamento popolare diventò per me il volto della città: tutta una rete nera nella notte, contorta e sollevata da luci smarrite e fluttuanti in cui incidevo come per distruggere.
È rappresentando l’ambiente e la comunità in cui vive, piuttosto che l’individuo in sé, che la pittura di Congdon riesce a far emergere l’umano nel modo più efficace. A legare due ambienti tanto diversi come Napoli e New York, è la stessa percezione della città come espressione della totalità delle aspirazioni e delusioni degli uomini. La città come specchio del destino umano, e nel medesimo tempo del personale destino di William Congdon.
Io dipingo sempre quello che sono, non quello che vedo.
Il nero domina nei quadri “urbani” di Congdon dilatandosi fino a seppellire l’intera città. Non è solo un atto di accusa verso le miserie e le ingiustizie della metropoli New York, di cui questi quadri, peraltro, non riescono a tacere del tutto l’energia e il fascino. In quel nero, ferita e spiraglio, si rinnova l’intuizione profonda che l’ha reso artista, destinata ad esplodere in quadri sempre più maturi: il male minaccia ogni bellezza, il male è ovunque, “innanzitutto in chi prova orrore guardandolo, come se lui stesso non fosse capace di farlo”.
Da questa morte della Città Nera sorse una luna arancio. Sorse inconsciamente dalla profondità dei miei bisogni spirituali e stava per diventare, benché in forme diverse, il simbolo della mia salvezza.